L’avvocato deve prima di tutto saper risolvere i problemi pratici dei
clienti.
Per questo motivo, faccio qualche esempio di quesiti molto
frequenti, fornendo una brevissima risposta sulla base delle mie
conoscenze e della mia esperienza pratica nel foro di Brescia.
La normativa in materia di vendita al consumo prevede che in caso di bene difettoso, l’acquirente abbia diritto ad ottenere la riparazione o la sostituzione della merce entro tempi ragionevoli e senza spese, ivi comprese le spese di spedizione, che pertanto rimangono a carico del venditore.
Il cd. “decreto Bersani” del 2007 ha stabilito che l’utente possa recedere dal contratto senza vincoli temporali e senza ritardi ingiustificati, ma anche “senza spese non giustificate dai costi dell’operatore”: non può quindi essere imposto il pagamento di alcuna penale.
I siti delle compagnie aree parlano di 3 ore, in quanto il Regolamento Europeo del 2004 in materia richiede almeno tre ore di ritardo per ottenere automaticamente il diritto al risarcimento. Tuttavia, ciò non esclude che si possa comunque ottenere un risarcimento, rivolgendosi ad un avvocato che, in applicazione della Convenzione di Montreal del 1999, dovrà dimostrare i danni subiti (provando il ritardo del primo aereo e il danno provocato dalla perdita del secondo).
Non ci sono rischi di azioni penali: si tratta di un comportamento
sanzionabile al più per evasione dell’imposta di bollo (dovuta per le
cambiali).
Semmai il rischio è un altro: e cioè che il soggetto che
l’ha ricevuto lo ponga all’incasso senza attendere la data indicata e
pertanto per evitare protesti occorre assicurarne la provvista in banca.
Non c’è invece il rischio che il portatore dell’assegno, dopo l’eventuale protesto, si rivolga ad un avvocato ed avvii una procedura esecutiva sulla base dell’assegno post datato, che non può valere come titolo esecutivo. Dovrà ottenerne uno in via giudiziale.
Laddove si vanti un credito nei confronti di una SNC si può agire sia nei confronti della società stessa, che dei suoi soci personalmente. Tuttavia, per agire contro i soci, bisogna prima provare ad instaurare tramite il proprio avvocato una procedura esecutiva nei confronti della società e solo in un secondo momento, una volta fallito questo tentativo, si potrà tentare anche verso i soci.
Esiste un Fondo di Garanzia INPS destinato proprio al TFR dei lavoratori nel caso in cui il datore di lavoro fallisca. Tuttavia, prima di poter presentare domanda a questo fondo, bisogna dimostrare di essersi rivolti ad un avvocato per effettuare un tentativo di recupero nei confronti del fallimento.
In presenza di determinate condizioni, è possibile separarsi o
divorziare senza bisogno di alcun avvocato, presentandosi semplicemente
all’ufficio di stato civile del Comune.
Le condizioni sono le
seguenti:
1) Non ci devono essere figli non economicamente autosufficienti.
2) La coppia deve avere trovato un accordo su tutti gli aspetti, sia
personali che patrimoniali.
3) L’accordo non può disciplinare i
trasferimenti patrimoniali tra coniugi, come ad esempio l’assegnazione
della casa o la divisione dei beni.
Se ricorrono tali condizioni, non vi è dubbio che questa sia la
procedura più economica, non richiedendo nemmeno di rivolgersi ad un
avvocato.
Ma se tali condizioni non sussistono, è necessario
avvalersi di un avvocato per ottenere un provvedimento giudiziale, sia
esso di omologa dell’accordo o di pronuncia della sentenza.
In tale contesto, la modalità senza dubbio meno onerosa è la separazione consensuale, in quanto entrambi i coniugi si potranno avvalere del medesimo avvocato senza duplicare i costi.
Sono dei quesiti che qualunque avvocato si è sentito formulare almeno
una volta.
Ebbene, l’obbligo di pagamento di un assegno di
mantenimento di un coniuge nei confronti dell’altro non è affatto
automatico.
Tale decisione viene presa dal giudice guardando al caso
concreto e valutando se uno dei due coniugi è economicamente “più
debole”, ad esempio perché (come accade tipicamente alle mogli) la
formazione professionale e la carriera sono state “sacrificate” in
favore della famiglia.
Ovviamente, si tratta di un assegno ben distinto da quello destinato ai figli non autosufficienti.
Nell’ambito di una separazione consensuale, occorrerà quindi disciplinare questo aspetto con l’aiuto dell’avvocato comune per i due coniugi, in ruolo sostanzialmente di “mediatore”, se si vuole che l’accordo venga poi omologato (cioè confermato) dal Tribunale di Brescia.
A quel punto la questione che si pone ai coniugi e all’avvocato è la seguente: di quale importo deve essere l’assegno di mantenimento?
Ebbene, la legge non disciplina in modo dettagliato questo aspetto, che pertanto è stato regolato nei fatti dalla giurisprudenza, con la seguente evoluzione:
1) Per anni, i Tribunali (compreso quello di Brescia) hanno applicato il principio secondo il quale l’assegno di mantenimento dovesse essere determinato in modo da consentire al coniuge beneficiario di mantenere lo “stesso tenore di vita” avuto durante il matrimonio, a prescindere dalla possibilità di vivere in modo dignitoso ad un importo inferiore.
2) Successivamente, la Corte di Cassazione con una sentenza del 2017 ha superato tale principio affermando che il presupposto dell’attribuzione dell’assegno di mantenimento è la mancanza di adeguati mezzi economici da parte dell’altro coniuge, con la conseguenza che l’assegno andrà commisurato a quanto necessario per il sostentamento.
3) Infine, sul punto si sono pronunciate le Sezioni Unite della Cassazione per risolvere il contrasto, affermando che la consistenza del diritto all’assegno di mantenimento va valutato in base ad un “criterio composito” che tenga conto anche del “tenore di vita” goduto durante il matrimonio, ma, non in modo indiscriminato, bensì in considerazione degli sforzi che il coniuge beneficiario ha fatto nel corso della vita familiare con il proprio lavoro domestico.
In altre parole, il nuovo principio che deve guidare i coniugi e il
loro avvocato è quello del “tenore di vita” commisurato però a quanto il
coniuge abbia “investito” sulla famiglia.
Si tratta in ogni caso di
un aspetto molto controverso ed infatti è in esame in Parlamento una
proposta di legge per disciplinare in modo più preciso l’ammontare
dell’assegno.
La giurisprudenza ha chiarito che l’aver tradito il proprio coniuge
non costituisce di per sé un motivo sufficiente per l’assegnazione dei
figli in via esclusiva all’altro coniuge.
La preferenza normativa
rimane infatti chiaramente orientata nel senso dell’affidamento
condiviso dei figli ad entrambi i genitori, con un “collocamento
prevalente” presso uno dei due.
Sotto tale profilo la giurisprudenza
tendenzialmente opta per il collocamento prevalente alla madre, ma a
fronte di un’adeguata disciplina della frequentazione da parte del
padre.
Sarà ovviamente compito dell’avvocato raccogliere le
rispettive istanze dei coniugi per tentare di definire nel modo più
“equilibrato” possibile questo delicatissimo aspetto.
In linea teorica, esiste uno strumento di tutela che non richiede
nemmeno di rivolgersi ad alcun avvocato né di fare causa.
Infatti,
per l’ipotesi in cui un sinistro venga provocato da un veicolo non
identificato (o non assicurato), esiste un “Fondo di Garanzia”, gestito
in ciascuna Regione da una Compagnia assicurativa, alla quale è
possibile richiedere il risarcimento dei danni patiti.
Attenzione però: in caso di veicolo non identificato sono risarcibili solo i danni alle persone; quelli alle cose possono essere risarciti oltre i 500 Euro, solo in caso di danni gravi alle persone.
La lista delle compagnie assicurative a ciò deputate e la modulistica
necessaria per la richiesta sono disponibili sul sito della Consap.
Niente avvocato, quindi, almeno sulla carta.
Va però precisato che in caso di veicolo “non identificato”, l’onere
della prova in capo alla vittima è abbastanza oneroso perché, pur non
essendo necessario sporgere denuncia contro ignoti, è necessario
dimostrare che il veicolo danneggiante non era identificabile con
l’“ordinaria diligenza”.
In tale contesto, sebbene la presentazione
della richiesta sia di per sé semplice, è comunque prudente l’ausilio di
un avvocato per prevenire le contestazioni della Compagnia competente.
So a cosa stai pensando: “ogni avvocato dirà così perché vuole guadagnare”.
Sul punto, quello che mi sento di dire è questo:
1) se ritieni di
poter fornire da solo prove sufficienti per dimostrare quanto detto
sopra, sei liberissimo di procedere autonomamente senza nemmeno sentirlo
un avvocato;
2) se però hai anche il solo minimo dubbio, fatti
aiutare da un avvocato a concepire la richiesta: il costo del suo
compenso in sede stragiudiziale sarà ampiamente ripagato dalla riduzione
del rischio di contestazioni da parte della Compagnia competente.
Ai fini di tale decisione, mi permetto di segnalare che la
giurisprudenza è divisa su cosa debba intendersi col fatto che il
veicolo danneggiante non doveva essere identificabile “con l’ordinaria
diligenza”: talvolta, infatti, i giudici hanno ritenuto che la
distrazione conseguente al sinistro sia un motivo idoneo a giustificare
la mancata annotazione della targa; altre volte invece i Tribunali hanno
escluso l’applicazione del Fondo affermando che tale distrazione non è
sufficiente.
E come questo, esistono vari altri aspetti controversi:
sei proprio sicuro di volerti assumere la responsabilità? Non è meglio
delegarla ad un avvocato?
Un avvocato interrogato sul punto, se vuole dare una risposta davvero
seria e trasparente, deve rispondere che non esiste una risposta certa.
Dipende da una serie di fattori.
In linea teorica, l’ente
amministrativo o il soggetto privato a cui spetta la custodia della
strada dovrebbe rispondere dei danni da questa provocata ai sensi
dell’art. 2051 del codice civile.
Tuttavia, la giurisprudenza (anche del Tribunale di Brescia) ha più volte chiarito che, in caso di difetti evidenti del manto stradale, il soggetto tenuto alla gestione della strada non può rispondere anche per la semplice “distrazione” dell’utente. Ma non per tutti i soggetti, perché ovviamente se si tratta di una persona anziana, la sua capacità di rendersi conto del pericolo non è quella media.
In tale contesto, è quindi evidente che il parere di un avvocato può
essere reso solo sulla base delle specifiche circostanze del caso.
In
altre parole, l’avvocato non può davvero esprimersi sulle possibilità di
successo “sulla carta”, ma deve poter valutare:
1) la dinamica dei fatti;
2) lo stato dei luoghi;
3) le
caratteristiche del soggetto infortunato.
Il cd. “danno da vacanza rovinata” è il tipico esempio di danno che non si concretizza necessariamente in una perdita patrimoniale.
Ad esempio, se la vista della camera dell’Hotel non è il mare (come promesso), ma il retro di un ristorante, dal quale magari provengono anche dei cattivi odori, c’è una perdita patrimoniale?
No, non c’è: però senza dubbio c’è un danno risarcibile.
Si
tratterà certamente di danni molto più difficili da dimostrare e
quantificare rispetto ad una “semplice” perdita patrimoniale.
Ma è
questo il compito dell’avvocato: chiarire al giudice come il vedersi
“rovinare” la vacanza provoca un danno di tipo non patrimoniale,
consistito nel fatto di aver vissuto in modo stressante una periodo di
tempo destinato al relax.
E quanto vale questo danno?
Beh, lascia fare all’avvocato, è lui
che deve trovare il modo di quantificare il danno sulla base del tuo
specifico caso e di argomentare in giudizio tale quantificazione.
Se si arriva a rivolgere questa domanda ad un avvocato è perché si
ritiene che il pagamento delle spese per la riparazione di un ascensore
da parte del condomino che abita al piano terra sia un’ingiustizia.
In realtà, la legge prevede che, seppur in misura ridotta, anche chi
abita al piano terra debba contribuire alle spese di riparazione
dell’ascensore condominiale.
In particolare, il codice civile prevede che:
1) la metà delle spese vada divisa in proporzione al valore degli immobili;
2) l’altra metà sia da ripartire in base all’altezza dell’immobile da terra, principio che ovviamente andrà in favore di coloro che abitano al piano terra, essendo l’altezza dei loro appartamenti da terra sostanzialmente pari a zero.
Inutile quindi rivolgersi all’avvocato se si punta a non pagare
alcuna somma.
L’unica speranza che il contenuto della norma possa
essere derogata in favore di chi abita al piano terra è l’ipotesi,
francamente abbastanza improbabile, di una delibera UNANIME
dell’assemblea condominiale in tal senso.
Ogni avvocato si è sentito chiedere almeno una volta: cosa succede se
gli altri condomini non pagano le spese di una ristrutturazione e io sì?
Il timore è evidente e legittimo: non è che il creditore del condominio
(in questo caso l’impresa edile che ha fatto i lavori) poi potrà agire
nei miei confronti per la parte mancante del suo credito, quando io ho
già pagato la mia quota?
Ebbene, mi dispiace dover dare questa informazione, ma in determinate ipotesi è proprio così.
Nel 2012, infatti, dopo anni di contrasti giurisprudenziali, è stata
introdotta una norma che prevede per il terzo creditore del condominio
la possibilità di agire anche nei confronti dei condomini in regola con
i pagamenti, se la sua iniziativa esecutiva nei confronti dei condomini
morosi si è conclusa senza successo.
Ti sembra un’ingiustizia? Si
tratta di una norma in effetti molto controversa, ma come dicevano i
latini “dura lex, sed lex” (è una legge dura, ma è legge).
Ad ogni
modo, questo non vuol dire essere completamente privi di tutela.
Se si subisce un’iniziativa esecutiva da parte del terzo creditore, potrà comunque essere utile chiedere all’avvocato di verificare due aspetti fondamentali, e cioè:
1) che il creditore abbia prima agito senza successo nei confronti dei condomini morosi;
2) se esistono delle vie esecutive percorribili per rivalersi nei confronti dei condomini morosi.
Nel primo caso, se il creditore ha agito direttamente nei tuoi confronti l'avvocato potrà eccepire in giudizio il cd. “beneficium excussionis”, cioè il beneficio di essere attaccati per secondi.
Quanto al secondo aspetto, non si tratta di una valutazione semplice,
perché se il creditore ha già agito nei confronti dei condomini morosi e
non ha ottenuto nulla, probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che
questi non hanno patrimoni aggredibili.
Insomma, fai un tentativo, ma
non chiedere all’avvocato di fare miracoli: purtroppo di fronte alle
scelte del legislatore non si può fare altro che adattarsi.
Anche questo è un quesito molto spesso sottoposto ad ogni avvocato,
anche a causa di informazioni contrastanti provenienti dagli stessi
uffici tecnici dei Comuni, anche della Provincia di Brescia.
Molti
Comuni, infatti, inseriscono tra i documenti necessari per ottenere il
permesso di costruire una veranda sul balcone di un condominio, anche la
delibera dell’assemblea condominiale che acconsenta alla costruzione.
In realtà non è così.
Questo perché il balcone è una parte dell’immobile di cui il proprietario può disporre in via esclusiva, e non una parte comune a tutti i condomini, per la quale occorrebbe la previa delibera dell’assemblea (peraltro con le maggioranze espressamente previste dalla legge).
In altre parole, “a livello teorico” il condomino è libero di
costruire una veranda sul proprio balcone; “a livello teorico”: ecco la
prudenza dell’avvocato nel rispondere.
Prudenza che si rende
necessaria in quanto esistono almeno due eccezioni, ossia:
1) il caso in cui il cd. “Regolamento Condominiale” (se firmato o richiamato nell'atto di acquisto) espressamente escluda questa possibilità per motivi di “decoro”;
2) successivamente ai lavori, l’assemblea condominiale ritenga (con le maggioranze opportune) che la veranda non sia rispettosa del famoso “decoro”.
Ecco dunque che l’avvocato non potrà limitarsi a dire “certo che puoi costruire”, ma dovrà aggiungere: “assicurati che gli altri condomini non abbiano nulla da ridire”: l’ideale sarebbe sottoporre prima la questione all’assemblea, ma per ragioni di opportunità, non di obbligo!
Ecco una questione che nei momenti più “bollenti” dell’anno diventa spesso oggetto della valutazione di ogni avvocato. Capita spesso, infatti, che l’inquilino si ritrovi ad avere necessità del condizionatore, lo chieda al proprietario di casa ma questi non provveda.
Di fronte a questo rifiuto l’inquilino cosa può fare?
Partiamo da un presupposto di base: il conduttore può apportare delle
modifiche all’immobile se queste sono necessarie per il suo godimento.
Quindi, la risposta alla prima domanda è: sì l’inquilino può installare
(a sue spese) un impianto di condizionamento (ovviamente rispettando le
eventuali regole, in caso di condominio).
Ma che dire del secondo quesito: cosa accade se poi l’inquilino lascia l’immobile?
Per rispondere a questa domanda l’avvocato deve partire dalla disciplina prevista in tema di locazioni, che distingue in particolare tea le cd. “migliorie” e le cd. “addizioni”:
1) le migliorie sono opere che apportano al bene locato un aumento di valore, senza che queste possano essere separate dall’immobile (es. un nuovo rivestimento della cucina);
2) le addizioni sono invece opere che migliorano il bene locato ma che, pur unendosi a questo, possono essere almeno teoricamente separate dall’immobile locato.
Tale distinzione è rilevante perché la disciplina della ripartizione delle spese tra conduttore e locatore è molto differente:
1) in caso di migliorie, il conduttore non ha diritto all’indennità, a meno che non via stato il consenso del locatore (non una semplice tolleranza ma proprio il consenso espresso;
2) per le addizioni, invece, il consenso del locatore non è
rilevante: l’indennità è dovuta solo se il proprietario preferisce
trattenere le opere.
In questo contesto, quindi, il consiglio
dell’avvocato dovrebbe essere il seguente.
Installa pure il condizionatore, ma se ritieni di poter lasciare l’immobile tra non molto tempo hai due opzioni:
1) essere sicuro di poterlo asportare senza danneggiare l’immobile e di poterlo utilizzare altrove (cosa non sempre certa);
2) parlane con il locatore e assicurarti che lui abbia interesse a trattenerlo, fissando magari un’indennità in base al numero di anni in cui verrà utilizzato.
Se ti aspettavi una risposta più semplice dal tuo avvocato, mi spiace di doverti deludere, ma l’applicazione della legge nella vita quotidiana quasi mai lo è.
È una delle grandi paure di chi concede un immobile in locazione: che
questo gli venga restituito danneggiato.
Certo, si potrà chiedere
all’avvocato di avviare una causa volta ad ottenere il risarcimento dei
danni patiti, ma che dire del fatto che l’immobile non potrà essere
messo di nuovo in locazione fino a quando non sarà riparato?
Seguendo i normali principi previsti dall’ordinamento, l’avvocato
avrebbe l’ingrato compito di informare il cliente del fatto che
difficilmente questo danno potrebbe essere risarcito.
Questo perché
bisognerebbe dimostrare che esistono altri soggetti interessati alla
locazione, ma che non è possibile procedere in tal senso a causa dei
necessari lavori di ristrutturazione.
Ma la Cassazione ha ritenuto che l’applicazione di questo principio
generale al caso di specie non fosse equo ed ha quindi fatto una
fondamentale precisazione.
Ha chiarito che in caso di immobili
danneggiati che richiedano un periodo di ristrutturazione, il
proprietario avrà diritto non solo al risarcimento dei costi necessari
per i lavori, ma anche al pagamento dei canoni pattuiti per tutto il
periodo di tempo necessario ad ultimare i lavori.
In pratica la
Suprema Corte equipara il periodo di ristrutturazione ad un ritardo
nella restituzione e con ogni probabilità la giurisprudenza di merito di
Brescia si adeguerà a tale conclusione.
In tale contesto, l’avvocato potrà quindi proporre con soddisfazione di agire non solo per il risarcimento dei danni patiti, ma anche per il “mancato guadagno” derivato dal fatto che per un certo periodo l’immobile non è stato messo in locazione.
Può sembrare una banalità, ma ogni avvocato sa che non sono cose per
nulla scontate.
Se si rompe il lavandino, chi paga la sostituzione?
L’inquilino, perché è lui ad utilizzarlo quotidianamente? Oppure il
proprietario, perché la casa in fin dei conti è sua?
Quesiti come
questo vengono proposti in abbondanza ad ogni avvocato, perché nella
quotidianità dei rapporti tra il locatore e l’inquilino si pongono
spesso dubbi di questo tipo.
Se non è il lavandino sarà la maniglia
della porta o la tavoletta del wc e così via.
Ebbene, per rispondere a questa domanda l’avvocato deve introdurre al
cliente i due concetti fondamentali di “ordinaria” e “straordinaria”
manutenzione.
Questo perché la prima spetta all’inquilino, mentre la
seconda va posta a carico del proprietario.
Semplificando molto i concetti si può dire che:
1) l’ordinaria
manutenzione si riferisce ai piccoli interventi che si rendono necessari
per la normale usura dei beni domestici (ad esempio una porta che inizia
a cigolare).
2) la manutenzione straordinaria fa invece riferimento
agli interventi “eccezionali” che si rendono necessari per problemi più
“strutturali” non riconducibili alla normale usura (come ad esempio la
sostituzione di una caldaia).
Ecco dunque che l’avvocato a cui viene posto questo quesito deve
rispondere stabilendo a quale tipo di manutenzione sia riconducibile
l’intervento in parola.
Ebbene nel caso di specie, può sembrare
esagerato o assolutamente scontato; sta di fatto che la sostituzione del
rubinetto viene considerata manutenzione “straordinaria” e quindi andrà
posta a carico del proprietario.
Se si hanno dubbi come questi, è sufficiente chiedere all’avvocato una piccola consulenza: non sarà costoso come si pensa (stiamo parlando di un consulto davvero minimo), ma toglierà un dubbio che nella vita quotidiana tutti gli inquilini e tutti i locatori si porranno almeno una volta.
Facciamo subito chiarezza: per scrivere un contratto non è
obbligatorio rivolgersi ad un avvocato. L’ordinamento, infatti, ne
impone l’intervento solo con riferimento alle cause.
E allora perché
sobbarcarsi il compenso dell’avvocato anche per un contratto?
Per
rispondere a questo quesito, occorre secondo me partire dallo scopo da
perseguire con la stipula di un contratto.
Un contratto va stipulato
per regolare un rapporto e per evitare che possano sorgere contrasti.
La struttura del contratto deve quindi essere concepita in modo tale da disciplinare gli aspetti più rilevanti, che altrimenti, con un accordo orale, rimarrebbero “in sospeso”, con il rischio che in caso di contrasti si debba chiarire l’eventuale questione sorta con una causa.
E perché serve l’avvocato per fare questo? Perché l’avvocato conosce
bene i possibili contrasti.
E quale miglior modo per evitare i
contrasti che conoscerli?
Ecco dunque che rivolgersi ad un avvocato per la redazione di un contratto è un “investimento” intelligente, perché il compenso per quell’attività non è nemmeno lontanamente vicino all’entità dei danni che si possono subire nell’eventualità di una vicenda sfociata in una causa.
Ci risiamo.
Eccomi di nuovo a dover evidenziare l’importanza del
ruolo dell’avvocato.
Ribadisco per l’ennesima volta che non lo faccio per difesa della
categoria o per aumentarne i guadagni, ma per onestà intellettuale. E
per onestà devo dire che se si riceve una lettera (da parte di un
avvocato ma non solo) occorre accettare che sia meglio farla almeno
leggere ad un avvocato.
Lo dico perché ogni avvocato sa che è meglio
dare la risposta più “prudente”. E nel caso di specie la risposta più
prudente è senza dubbio dire al cliente che è meglio togliersi il dubbio
che il “non far nulla” possa provocare danni irreparabili.
Mi spiego.
Quando si riceve una lettera, molti preferiscono “nascondere la testa
sotto la sabbia”: in altre parole, ignorarla.
In realtà questa scelta
può essere davvero pericolosa perché a volte l’ordinamento impone dei
limiti temporali per alcune iniziative.
In altre parole, rivolgersi all’avvocato solo quando la lettera è
magari sfociata in una causa può essere troppo tardi. A quel punto, ad
esempio, potrebbe ormai essere decorso il termine per recedere dal
contratto, per denunciare un vizio o per evitare una prescrizione.
E
in alcuni casi non si sono “seconde possibilità”: non c’è più nulla da
fare.
Meglio insomma fare un piccolo sforzo e accettare di portare la lettera da un avvocato: magari non servirà, ma sei disposto a rischiare?
Molti pensano che far scrivere una lettera ad un avvocato serva solo
per “spaventare”, per far capire che il prossimo passaggio sarà fare una
causa.
In realtà, la lettera di un avvocato può avere delle funzioni
ben diverse.
Può sembrare banale, ma l’avvocato può aiutare a “fare ordine”.
Perché mentre le vicende si svolgono le persone possono fare confusione
sugli istituti rilevanti (non è il loro lavoro) e, spinti dalle migliori
intenzioni, possono scrivere lettere che dal punto di vista giuridico
non hanno nulla a che vedere con i fatti.
Queste lettere non soltanto non serviranno a nulla, ma potrebbero
addirittura essere dannose.
Mi è capitato, ad esempio, che un
imprenditore di Brescia, convinto in buona fede di avere ragione (e in
effetti vantata un consistente credito), abbia commesso un reato,
formulando sostanzialmente una minaccia con una lettera.
Piero Calamandrei |
Avv. Antonello Calabria
presso Studio Legale Gorio Minervini & Associati - Avvocati a
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